Nel suo ultimo libro, "Al Verde. Manifesto dei tempi moderni" (Rubettino editore), Roberto Sommella – direttore di MilanoFinanza e del sito milanofinanza.it, noto editorialista economico e presidente dell'associazione non profit "La Nuova Europa" – disegna uno scenario potente e a tratti inquietante: un'umanità sull'orlo di un bivio, tra la corsa al riarmo e la rivoluzione digitale senza regole, dove persino le scelte più sostenibili rischiano di trasformarsi in nuove disuguaglianze. 

Sommella, che da anni si impegna per una cultura europea della conoscenza e della solidarietà (è fondatore della "Scuola d'Europa" a Ventotene), nel volume propone un vero e proprio manifesto per tornare all'Homo Sapiens: un richiamo alla consapevolezza, alla misura e al pensiero critico. Temi centrali anche di questa intervista, in cui il focus dell'innovazione si lega alla tenuta democratica, culturale e sociale del nostro tempo.

Dottor Sommella, partiamo dal suo libro "Al Verde", pubblicato lo scorso ottobre. Cosa l'ha spinta a scriverlo e quali sono i segnali che l'hanno indotta ad anticipare molti dei temi che oggi sono al centro del dibattito?

Quando ho iniziato a scrivere "Al Verde", sentivo che stava cambiando qualcosa di profondo, non solo a livello economico, ma antropologico. La sostenibilità stava diventando un pretesto per introdurre nuove disuguaglianze, invece che un motore di giustizia: la sensazione era quella di trovarmi davanti a una convergenza di crisi. Da una parte, una rivoluzione digitale che avanza a una velocità mai vista prima, spesso senza regole. Dall'altra, la rincorsa alla sostenibilità ambientale che, se non ben governata, rischia di tradursi in nuovi vincoli per le persone comuni, generando ulteriore disparità. L'esempio che porto nel libro è chiaro: abbiamo creato un mondo in cui costruire un carro armato costa meno che produrre un'automobile. Questo è un paradosso che racconta molto di dove siamo finiti... In questo quadro, il richiamo al Manifesto di Ventotene è stato per me naturale: oggi andrebbe riscritto in chiave contemporanea. Serve un'Europa che torni a essere guida etica oltre che istituzionale.

Nel libro lei parla di «macchine che producono ricchezza e disuguaglianze» e di «uomini che generano guerre». In questo scenario, dove si colloca il ruolo dell'innovazione?

Penso che l'innovazione, di per sé, non sia né buona né cattiva: è semplicemente uno strumento. Il significato che le attribuiamo dipende interamente dall'uso che decidiamo di farne. Quello che mi preoccupa, però, è la velocità con cui oggi questa innovazione si sviluppa, una velocità che supera di gran lunga la capacità dei sistemi normativi e istituzionali di comprenderla, assorbirla e regolarla. Ci troviamo in una situazione in cui la tecnologia evolve alla velocità della luce, mentre le regole, la burocrazia e perfino la cultura istituzionale restano ancorate a modelli analogici, lenti e spesso inefficaci.

Questo divario crescente genera un profondo squilibrio: non solo crea disorientamento tra le persone, ma rischia anche di alimentare nuove forme di esclusione e di incertezza sociale. Ritengo sia necessario costruire un nuovo patto tra innovazione e regole, un equilibrio consapevole che ci consenta di cogliere i benefici del progresso tecnologico senza sacrificare i diritti, la dignità e la sicurezza delle persone. Le istituzioni, le leggi, e persino il sistema educativo devono imparare a muoversi con maggiore agilità, aggiornandosi di pari passo con le trasformazioni in corso, ma senza mai perdere di vista la tutela del bene comune. 

L'innovazione non può diventare un fine in sé, né tantomeno una dimensione tecnocratica che si autoregola senza limiti. Non possiamo permettere che a decidere siano solo gli algoritmi. Per questo insisto sul fatto che, accanto alla spinta tecnologica, dobbiamo coltivare una dimensione umana: etica, critica, sociale. In una parola: l'innovazione deve rimanere un progetto umano, non soltanto digitale..

In questo numero di EVOLVE – focalizzato sulla cultura dell'innovazione – parliamo di in-genium un progetto di MAIRE e della sua Fondazione che racconta proprio la continuità profonda tra il genio degli antichi romani e le sfide dell'innovazione sostenibile. Quanto è importante, secondo lei, trasferirla non solo nei prodotti o nei processi, ma anche nel modo in cui pensiamo e agiamo, come individui e come società?

Credo che sia assolutamente fondamentale. L'innovazione dovrebbe rappresentare un'occasione per migliorare la qualità della vita delle persone, per semplificare ciò che è complesso e offrire soluzioni nuove a problemi antichi. Ma perché questo avvenga davvero, non può restare confinata a un ambito tecnico o tecnologico. Deve diventare parte integrante del nostro modo di pensare, di lavorare, di vivere. È in questo che risiede la vera sfida culturale: fare dell'innovazione non solo un fatto di prodotto, ma una mentalità diffusa, capace di attraversare ogni strato della società, dalla scuola al mondo del lavoro, fino alle istituzioni. 

Se non inseriamo una dimensione etica dentro l'innovazione, rischiamo di ridurla a uno strumento di potere o, peggio, di esclusione. Credo sia indispensabile costruire una cultura condivisa dell'innovazione, che sappia tenere insieme progresso e responsabilità, sviluppo e inclusione. Non possiamo pensare che siano le sole macchine a decidere cosa è giusto, utile o conveniente. 

L'essere umano ha bisogno di radici, di senso, di un ambiente dove possa esprimere pienamente la propria creatività e il proprio ingegno: iniziative come in-genium di MAIRE— che uniscono il sapere del passato alle sfide della sostenibilità e dell'innovazione contemporanea — rappresentano un esempio virtuoso. Per affrontare davvero il futuro, serve un nuovo umanesimo dell'innovazione. Un modo diverso di guardare al progresso, che non metta da parte l'uomo, ma lo rimetta al centro.

In effetti, uno dei rischi è che l'innovazione ci spersonalizzi, riducendoci a "profili digitali". Come si può innovare senza perdere il contatto con ciò che ci rende umani?

Credo che il primo passo sia tornare a riconoscere una verità semplice ma fondamentale: l'ingegno non nasce nel cloud, ma nell'esperienza umana. L'intelligenza artificiale, gli strumenti digitali, i processi automatizzati possono aiutarci in mille modi, ma non potranno mai sostituire ciò che ci rende davvero umani: la capacità di pensare in modo critico, di creare, di provare empatia, di connetterci con gli altri a livello reale, non solo virtuale. 

Negli ultimi anni, soprattutto durante la pandemia, abbiamo vissuto un'accelerazione tecnologica che ha portato molti a credere che si potesse fare tutto a distanza, in modo impersonale, connessi ma non realmente presenti. Ma è proprio in quel periodo che si sono rivelati con forza anche i limiti di questa visione. Penso in particolare ai più giovani, alla cosiddetta "generazione Covid": ragazzi e ragazze che si sono ritrovati privati della dimensione sociale della scuola, del contatto umano con gli insegnanti e con i coetanei, della possibilità di crescere attraverso il confronto diretto. Abbia- mo chiesto loro di adattarsi a un mondo digitale senza accompagnarli davvero in quel passaggio. E questo ha lasciato delle ferite, in molti casi profonde.

Oggi, più che mai, è necessario restituire valore alla presenza, al lavoro vissuto in modo fisico, concreto, relazionale. Non possiamo pensare che basti una connessione per creare senso di appartenenza, motivazione, comunità. Le aziende hanno una responsabilità fondamentale: non devono limitarsi a inseguire l'ultima tecnologia disponibile, ma devono anche creare spazi di benessere e formazione continua, di crescita personale. E le istituzioni devono garantire che l'innovazione non sia solo una corsa all'efficienza, ma un progetto sociale, culturale, inclusivo. 

In questo senso, io credo che serva un cambio di paradigma: meno norme e più conoscenza. Meno burocrazia, più pensiero libero, università, confronto. Perché noi forse non avremo la Silicon Valley, ma abbiamo quella che chiamo la Freedom Valley: la valle dei diritti, del pensiero critico, della democrazia. Ecco il nostro vero capitale: quello che nasce dal corpo, dallo spazio comune, dal vivere insieme. Innovare davvero significa anche custodire questo patrimonio.

In chiusura, quali sono oggi i settori più investiti dagli sviluppi dell'innovazione digitale? 

Tra quelli maggiormente attraversati dall'innovazione digitale ci sono, senza dubbio, l'intelligenza artificiale, la robotica, le biotecnologie e tutto ciò che riguarda la transizione energetica. Anche la finanza sta vivendo una trasformazione profonda, direi quasi una smaterializzazione: si stanno ridefinendo strumenti, linguaggi e perfino le logiche del mercato. 

Il problema, però, è che tutto questo accade a una velocità impressionante, che rischia di lasciare scoperto — e spesso indietro — l'aspetto umano. Come accennavo prima: se questi sviluppi non sono accompagnati da una visione etica, da una narrazione pubblica capace di restituire senso e responsabilità all'innovazione, allora diventano processi tecnici privi di anima. Il futuro non può essere lasciato in mano agli algoritmi, a una dimensione tecnocratica che si autoregola senza limiti. Deve essere una scelta, guidata dalla consapevolezza e dalla volontà di costruire un domani in cui il digitale non sostituisca l'umano, ma lo potenzi, lo accompagni, lo rispetti. Accanto alla spinta tecnologica, dobbiamo coltivare una dimensione umana: etica, critica, sociale. In una parola: l'innovazione deve rimanere un progetto umano, non soltanto digitale.



"AL VERDE", UN MANIFESTO DEI TEMPI MODERNI

Nel suo ultimo libro, Roberto Sommella racconta di un nuovo mondo in costruzione in cui le auto saranno un bene di lusso, dove sarà più remunerativo fabbricare armi che veicoli e dove la AI si sta espandendo a dismisura senza vincoli sulle emissioni. 

Partendo dalla domanda «Come salvare il pianeta, l'Europa e noi stessi dalle nuove disuguaglianze digitali'», "Al Verde. Manifesto dei tempi moderni" (Rubettino editore) è un saggio-manifesto in cui il direttore di MilanoFinanza denuncia l'emergere di un nuovo ordine globale in cui il progresso rischia di produrre nuove povertà, escludendo i più fragili dalla rivoluzione tecnologica ed ecologica. 

Nel libro, l'autore mette in luce un paradosso: le leggi nate per combattere l'inquinamento — dalle auto elettriche alle case green — rischiano di peggiorare le condizioni di vita di milioni di persone. Con uno stile lucido e provocatorio, Sommella individua tre figure-chiave del nostro tempo: l'Homo Digital, l'Homo Faber e l'Homo Sapiens. A quest'ultimo spetta, secondo l'autore, il compito più difficile: ritrovare la stra- da della consapevolezza, del pensiero critico e dell'equilibrio tra tecnologia, ambiente e giustizia sociale.