Con una formazione STEM e una carriera internazionale costruita nel settore industriale, oggi Cristiana Scelza guida progetti ad alto contenuto tecnologico in Prysmian Group ed è alla presidenza di Valore D, la prima associazione di imprese in Italia dedicata a promuovere inclusione e parità di genere. Osservando da vicino come le diversità diventino leve strategiche per innovare e crescere, Scelza racconta perché l'inclusione non sia un valore accessorio, ma un fattore chiave di competitività.

Crescere insieme significa creare le condizioni perché ogni persona si senta parte attiva di un percorso comune e perché quando si è insieme 1+1 diventa un numero maggiore di 2. Per questo l'inclusione non è più un valore accessorio, ma una leva strategica per l'innovazione e la crescita. Le organizzazioni più solide e visionarie sono quelle che riconoscono il potenziale delle differenze — di cultura, età, genere, background, esperienza — come fattore abilitante che permette di sviluppare un'intelligenza collettiva ampia, non come variabile da gestire. Perché un team davvero eterogeneo è anche un team più capace di leggere la complessità, prevenire i rischi, innovare in modo sostenibile.

Nei percorsi di accompagnamento al cambiamento che Valore D sviluppa con le oltre 400 imprese associate, emerge che le realtà capaci di valorizzare pienamente le persone — nelle loro competenze, motivazioni e potenzialità — sono anche quelle che ottengono i risultati migliori. Non solo sul piano economico, ma anche nella capacità di attrarre nuovi talenti, trattenere risorse strategiche, affrontare con agilità le trasformazioni tecnologiche e ambientali. Le organizzazioni che investono in una cultura del riconoscimento e della partecipazione diffusa diventano più reattive, più sostenibili, più forti nel tempo.

L'inclusione non rallenta il business: lo rende più resiliente, più umano, più duraturo.

Quali sono le sfide più urgenti per il futuro dell'inclusione nelle organizzazioni?

La prima sfida è sistemica: per rendere davvero efficaci le politiche di equità e pari opportunità, serve una piena integrazione nei processi decisionali aziendali. Questo significa dotarsi di metriche chiare, obiettivi misurabili, responsabilità diffuse lungo tutta la catena organizzativa. Senza una governance solida e accountability trasversale, il rischio è che l'inclusione resti un'intenzione più che una trasformazione. Non si tratta solo di creare iniziative, ma di farle vivere nel cuore delle strategie aziendali, attraverso piani strutturati, formazione continua e un monitoraggio costante dei risultati.

La seconda sfida è culturale. le politiche DEI recentemente sono oggetto di un acceso dibattito in alcune parti del mondo. In Europa, invece, uguaglianza e non discriminazione sono principi fondanti, sanciti dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE. Il contesto europeo riconosce da tempo l'importanza di misure che promuovano un'uguaglianza sostanziale, e ha adottato direttive e strategie che sostengono la parità di genere, l'equità retributiva e l'inclusione sociale.

Oggi più che mai la discussione è aperta. In molte aziende associate a Valore D questa discussione si sta rivelando un'occasione per riaffermare l'impegno su questi temi, riformulando il linguaggio e riconnettendo le politiche DEI a una visione più ampia di benessere organizzativo e sostenibilità. È un passaggio necessario, perché solo ciò che è solido nella cultura può reggere nel tempo anche alle sfide esterne.

L'impatto di Valore D è tangibile: l'87% delle aziende associate ha attivato piani di welfare e il 74% riconosce all'associazione un ruolo chiave nei propri programmi di inclusione. Qual è il "cuore operativo" di questo cambiamento? Cosa rende efficace il vostro modello?

Il nostro modello si basa su un approccio integrato: mettiamo a disposizione delle imprese strumenti, dati, competenze e comunità. Ogni intervento è disegnato partendo dai bisogni specifici delle aziende, ma ancorato a un impianto valoriale e metodologico condiviso. Questo consente di adattare senza snaturare.

Il cuore operativo è la condivisione: un sistema collaborativo in cui le aziende si mettono in ascolto, co-progettano attività, si scambiano buone pratiche e si misurano su metriche comuni. Non si tratta solo di "applicare linee guida", ma di accompagnare le organizzazioni in un percorso di trasformazione che rende l'inclusione parte della cultura e della governance. E quando questo accade, i risultati si vedono: più engagement, più creatività, più competitività.

La sua carriera internazionale nel settore industriale l'ha portata a guidare progetti ad alto contenuto tecnologico. Come si bilancia oggi, in azienda, l'innovazione tecnologica con la valorizzazione delle diversità?

Tecnologia e diversità non sono in contraddizione. Al contrario, la trasformazione digitale richiede team capaci di guardare ai problemi da più angolature, con competenze ibride e approcci complementari. Il bilanciamento sta nella consapevolezza: la tecnologia non è mai neutra. Riflette i dati, le logiche e le intenzioni di chi la progetta. Per questo è fondamentale avere nei team decisionali più voci, più esperienze, più punti di vista.

Nel mio percorso professionale ho visto quanto un ambiente eterogeneo, dove le persone si sentono legittimate a portare il proprio sguardo, riesca a generare innovazione più efficace e più equa. È il motivo per cui dobbiamo investire anche sulla cultura del lavoro, creando spazi psicologicamente sicuri, liberi da bias e stereotipi, dove ciascuno possa dare il meglio di sé.

Inclusione ed integrazione hanno impatto sulla creazione di valore delle aziende. Ci può spiegare perché e quali sono gli indicatori che lo confermano?

L'inclusione non è un'intuizione etica, ma una scelta strategica misurabile. Numerosi studi "McKinsey, Boston Consulting Group) mostrano che, a parità di settore, le aziende che investono in politiche sull'equità e il benessere registrano livelli più elevati di produttività e coinvolgimento delle persone, una riduzione del turnover, un miglioramento della capacità di attrarre talenti, maggiori probabilità di ottenere performance finanziare superiori rispetto ai competitor, una maggiore innovazione e capacità di rispondere alle esigenze di una clientela sempre più variegata.

Perché questo accada, però, occorre adottare una visione gestionale chiara: servono KPI precisi che misurino il grado di avanzamento e l'efficacia delle politiche DEI nelle aziende, dal tasso di retention delle risorse, alla percentuale di donne nei ruoli STEM e apicali, dal work-life balance ai punteggi di engagement. Strumenti come l'Inclusion Impact Index Plus, la piattaforma digitale che analizza l'inclusione a 360° sviluppata da Valore D insieme al Politecnico di Milano, supportano le aziende nel monitorare i propri progressi e confrontarsi con benchmark settoriali. Non si tratta solo di fare "la cosa giusta", ma di fare la cosa intelligente per il futuro del business.

In questo momento storico si stanno mettendo in discussione le politiche DEI. È un fenomeno destinato a durare?

Il dibattito è acceso, ma non è nuovo. Ogni volta che un cambiamento culturale si afferma, incontra anche resistenze. Ma i numeri, le esperienze, le trasformazioni in atto dimostrano che le politiche DEI non sono una moda passeggera. Sono una risposta concreta alle sfide della contemporaneità: attrarre talenti in mercati globali, rispondere ai bisogni delle nuove generazioni, affrontare l'evoluzione tecnologica e sociale con responsabilità.

Se guardiamo al futuro, vediamo che le aziende più resilienti e sostenibili sono quelle che sanno costruire valore insieme alle persone, non a scapito delle persone. E "Rising Together", appunto, significa anche questo: crescere non solo nei numeri, ma nella capacità di includere, ascoltare, innovare con equità. È qui che si gioca la vera leadership dei prossimi anni.